La storia del Kenya dopo Jomo Kenyatta

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Morto Jomo Kenyatta nel 1978, la presidenza della Repubblica venne assunta da Daniel Arap Moi, successore designato da Kenyatta, che si trovò a fronteggiare dissensi e tensioni interne, culminate in un tentativo di colpo di stato nel 1982.
 
Moi, riconfermato nel 1983 e poi ancora nel 1988, instaurò una politica di oppressione che, in particolare dal 1986, accrebbe le tensioni sociopolitiche e quelle interetniche.
 
Alla fine degli anni Ottanta lo scontento per la corruzione dilagante nel governo e le difficoltà economiche del Paese si espresse nella richiesta dell’abolizione del sistema a partito unico e nel consolidamento dei gruppi d’opposizione, generalmente repressi.
 
Solo nel dicembre 1991, a seguito delle sempre crescenti pressioni interne e internazionali, l’Assemblea straordinaria della KANU approvò un documento che legalizzava i partiti di opposizione, sancendo il ritorno al pluralismo politico.
 
Alla fine del 1992, in un clima di nuovi scontri etnici, che videro opporsi soprattutto Masai e Kalenjin ai Kikuyu, Moi venne ancora una volta rieletto alla presidenza della Repubblica, mentre la KANU conquistava la maggioranza dei seggi dell’Assemblea Nazionale.
 
Dopo nuovi segni di irrigidimento politico da parte del presidente della Repubblica, che ebbero riscontri in politica estera con la sospensione degli aiuti internazionali, la campagna elettorale del 1997 fu caratterizzata in tutto il Paese da violente manifestazioni di protesta contro la politica economica del governo.
 
Alla fine dello stesso anno le elezioni presidenziali e legislative, nonostante la crescita interna di un’opposizione che denunciò brogli e irregolarità di voto, riconfermarono a capo dello Stato Moi e assegnarono la maggioranza, nell’Assemblea Nazionale, alla KANU.
 
Dopo un primo rimpasto di governo nel 1999, nel giugno 2001 Moi decise di costituire un nuovo governo di coalizione, in cui entrò anche il leader storico dell’opposizione, Raila Odinga.
 
Nelle elezioni presidenziali svoltesi alla fine del 2002 Moi, dopo 24 anni di governo, non si presentò come candidato, segnando di fatto il crollo del proprio regime dopo 24 anni di dominio.
 
L’opposizione, riunita nella coalizione Arcobaleno, portò il proprio candidato, l’economista Mwai Kibaki a diventare il terzo presidente del Kenya, con l’incarico di risollevare le sorti del Kenya.  
 
Nonostante le promesse elettorali il nuovo presidente non riuscì a migliorare le condizioni economiche e politiche del Paese dove corruzione e scarsa sicurezza continuavano a essere problemi rilevanti; tentò anzi di rafforzare i propri poteri presentando, nel novembre 2005, un referendum sulla modifica della Costituzione: nella consultazione prevalsero i pareri contrari e come conseguenza Kibaki costrinse l’intero governo a dimettersi.
 
Nuove elezioni presidenziali si svolsero nel 2007; esse, vinte per pochi voti da Kibaki, furono aspramente contestate sia da Odinga sia dagli osservatori internazionali.
 
Nel Paese scoppiarono scontri violenti tra le fazioni politiche, e in parte etniche, che causarono oltre 1000 morti.
 
Le elezioni generali del 2008, furono segnate da un’esplosione di violenza etnica che proseguì anche dopo la proclamazione di stretta misura della vittoria del partito del presidente uscente: solo grazie alla mediazione di Kofi Annan si giunse ad un armistizio tra le fazioni, con l’intesa che il presidente Kibaki ed il suo principale rivale Odinga governassero insieme: quest’ultimo è stato quindi nominato primo ministro, carica neoistituita e successivamente abolita.
 
Le successive elezioni generali del 2013 sono state vinte da Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo Kenyatta.

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